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LA PADANIA
7 febbraio 2006
CINQUE ANNI DI LAVORO NEL LIBRO “MALEDETTO INGEGNERE”
Ecco come ho infranto i tabù delle toghe rosse
In un appassionato resoconto Roberto Castelli ripercorre i tanti ostacoli opposti dal sistema al Guardasigilli leghista
ALESSANDRO MONTANARI

«Dopo Silvio Berlusconi sono stato l’uomo più insultato di questa legislatura». “Maledetto ingegnere”, il libro di prossima uscita al quale il ministro della Giustizia Roberto Castelli ha deciso di affidare una personale valutazione della propria attività da guardasigilli comincia proprio così, con l’amara constatazione di essere diventato la “bestia nera” numero due della sinistra. Il chè, peraltro, significa indirettamente che l’azione esercitata sul sistema è stata decisamente incisiva. E il sistema che si presentava a inizio legislatura all’”Ingegnere”, come l’ambiente di riferimento è solito chiamarlo ricordargli sottilmente la sua estraneità culturale all’universo umanista del diritto, era indubbiamente tra i più ostili ed ostici. “Ostile” per via della nota preponderanza delle toghe rosse, “ostico” perchè tanto conservatore da non aver permesso nemmeno ai due Guardasigilli dei governi affini, di metter mano all’ordinamento. L’impresa, invece, è riuscita al ministro leghista, ma solo, ricorda lui, grazie a “una dura battaglia di tre anni, combattuta tra polemiche, pregiudizi e ben quattro scioperi della magistratura, un record neanche mai sfiorato dai miei predecessori”. Quello della giustizia, in effetti, è in Italia un terreno minato, dove la verità empirica cara all’Ingegnere si scontra palesemente, ma in sordina, con il dettato costituzionale. «Quando, parlando, con i miei colleghi ministri all’estero, dico che nel nostro Paese vi è una consistente frangia di magistrati che aderiscono ad appelli pubblici di natura politica, in alcuni casi partecipando addirittura a cortei di no global, non credono alle proprie orecchie». Altra stranezza rilevata da Castelli è il rilievo insolitamente scarno concesso dai media alle parole del presidente Ciampi allorchè il capo dello Stato ricorda che dovere del magistrato è non solo essere imparziale, ma anche apparire tale. «È curioso - si legge in ”Maledetto Ingegnere” - che le toghe organizzate, sempre pronte a brandire la Costituzione, non tengano in nessun conto le esortazioni di chi dalla Costituzione è indicato come loro presidente». La contraddizione del giudice militante, però, nel nostro paese è resa palese dall’esistenza di un’associazione come Magistratura Democratica “che oggi raccoglie circa un terzo dei consensi e che sogna l’instaurazione della dittatura del proletariato”. A chi ritiene tale affermazione esagerata, Castelli suggerisce la lettura di “Giudici a sinistra”, “un libro del magistrato di Md Giovanni Palombarini che ammette sostanzialmente l’intreccio tra attività giuridica e finalità politiche. «Un giudice borghese in quanto tale - scrive Palombarini -non può costruire il socialismo. Può valorizzare al massimo libertà universali e programmi egualitari in modo da facilitare l’opera e le lotte di chi per il socialismo lavori». «Ciò che è più stupefacente - commenta Castelli - è il fatto che questa teoria venga supinamente accettata dalla maggioranza della classe politica e della stragrande maggioranza dell’intellighentia italiana». Combattendo strenuamente contro tali forze, però, sono stati raggiunti dei risultati storici che il primo Guardasigilli della Lega espone puntigliosamente per confutare quella politica e quella stampa che, nel migliore dei casi, suole dipingerlo come un inetto. «Abbiamo riformato il diritto societario e la disciplina delle procedure concorsuali, entrambi risalenti al 1942. Abbiamo posto fine al cosiddetto turismo forense per cui i praticanti del nord, bocciati con percentuali altissime agli esami per l’accesso alla professione di avvocato, andavano al sud per sostenere gli esami in sedi dove le percentuali di promossi erano invece altissime. È stata rivista la legge sugli acquisti degli immobili impedento che chi ha acquistato una casa se la veda portar via solo perchè la società o la cooperativa venditrice sono fallite. Soprattutto, però, abbiamo riformato un ordinamento giudiziario che risaliva al 1941, cosa che molti, persino Massimo D’Alema nella Bicamerale, aveva provato a fare senza successo». Quel che Castelli tiene maggioramente a precisare, tuttavia, è il principio ispiratore di tutta la sua attività. «I miei detrattori - scrive - affermano che sia mia intenzione attentare all’autonomia e all’indipendenza della magistratura. Nulla di tutto ciò. Ho voluto, e fortemente voglio, ristabilire le prerogative costituzionali dei poteri dello Stato. La magistratura deve essere libera, autonoma e indipendente. Non può esservi Stato democratico ove ciò non accade». Si tratta, dunque, di una battaglia volta a restituire al giudice la sua dimensione reale, una dimensione invero molto lontana dal rilievo e dalla popolarità eccessiva acquisita da certi giudici. «La situazione - ricorda il ministro - raggiungeva vertici parossistici a Milano con Francesco Saverio Borrelli, una specie di semidio nel suo Olimpo. Ogni sua parola era verità rivelata, era il magistrato con la Emme maiuscola». «Prima di me, dal ’90 in poi, - nota ancora Castelli - tutti i ministri che hanno tentato di ordinare un’ispezione a Milano hanno dovuto abbandonare il Ministero perchè in quel Palazzo si muovevano, di fatto, degli intoccabili». Segue un lungo inventario di velenose dichiarazioni rilasciate da Borrelli e dal Procuratore D’Ambrosio nei confronti del Guardasigilli, ritenuto con varietà di allocuzioni, “personaggio assai modesto”. La tempra dura del leghista soccorse il misitro nel braccio di ferro. «Con loro - ricorda - adottai una tattica molto semplice: sapevo che il tempo era dalla mia parte a causa della loro età e non accettai mai le loro provocazioni». E il tempo, in effetti, gli dette ragione anche se il pugnace D’Ambrosio è ora tornato in campo, indossando la casacca dei Ds, per proseguire la vecchia battaglia. Borrelli, invece, che come rivela “Maledetto Ingegnere” “coltivava il sogno di diventare presidente della Repubblica”, è ormai un semplice pensionato che, annoiato dalla routine della vita civile, ha presentato, vanamente, domanda di reintegro in magistratura. «Forse Borrelli - ipotizza Castelli - ha scoperto di essere qualcuno proprio per il suo status di togato. Ha preso consapevolezza che senza toga non era più nessuno. E non lo ha sopportato». Ma la battaglia del minsitro col fazzoletto verde oggi continua sul fronte dell’informazione e sulla scorta della consapevolezza di aver fatto qualcosa di importante, nonostante gli attacchi della Corte dei Conti, “che minaccia di spogliarmi di ogni mio avere”, e il complesso di superiorità della sinistra, sempre pronto, come nel caso della mancata concessione della grazia ad Adriano Sofri, a gettare fumo ideologico negli occhi degli elettori. «Come si può tenere rinchiuso - mi dicono - un intellettuale di sinistra per un avvenimento avvenuto tanti anni fa? In affermazioni come questa sta tutto il razzismo e il classismo della sinistra postmoderna perchè sei disdestra e sbagli sei un delinquente, mentre se sei di sinistra, e per di più intellettuale, puoi anche essere condannato per omicidio ma devi essere libero. Con buona pace del senso di giustizia, del principio di certezza della pena, dei sentimenti dei parenti della vittima, degli oltre 8 mila detenuti per omicidio o tentato omicidio per i quali non si mobiliterà l’establishment italiano». «E comunque mi chiedo perchè - conclude Castelli - gli illuminati Diliberto e Fassino, ministri della Giustizia nei governi D’Alema e Amato, non si posero mai il problema di concedere la grazia a Sofri?»
Vicenda Sofri a parte, che ne sarà di tutto il lavoro fatto se la sinistra dovesse vincere le elezioni è un mistero buffo. «Per tenere buoni i magistrati - ci dice Castelli - cancelleranno qualcosa, come ad esempio le nuove regole per l’avanzamento professionale. Il resto invece lo terranno volentieri». Ma lei è pronto a riassumere le redini del ministero dopo il voto del 9 aprile? «Sì, con spirito di servizio, anche se ammetto che è stata dura. In ogni caso voglio dare un suggerimento ad entrambi gli schieramenti. Mi sono reso conto che è bene che il Guardasigilli non sia un giurista puro ma che sia anche un manager. È una lezione che ho imparato a mie spese, sentendo usare la parola “ingegnere” come una sorta d’epiteto. È proprio con la cultura empirica che da secoli manda avanti il mondo che, credo, si debba lavorare».


INES TABUSSO