SCALFARI, DI VICO, ANSELMI

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
INES TABUSSO
00martedì 20 dicembre 2005 22:48
LA REPUBBLICA
20 dicembre 2005
IL CONFINE TRA AFFARI E POLITICA
EUGENIO SCALFARI

FINALMENTE il Governatore della Banca d´Italia, Antonio Fazio, ha rassegnato le dimissioni; ma scriviamo la parola «finalmente» non già con letizia ma con un sentimento di profonda tristezza e di non fugata preoccupazione. È infatti la prima volta nella storia dell´Italia repubblicana che il capo dell´Istituto preposto al governo del sistema bancario e alla vigilanza sulla corretta gestione del credito è costretto a cedere i suoi poteri di fronte all´evidenza di anomalie, illecite connivenze, ipotesi di reato indagate dalla magistratura, pressione pressoché unanime dell´opinione pubblica interna e internazionale.
Se si vuole cercare un precedente d´una situazione così eccezionale bisogna nientemeno risalire a oltre cent´anni fa, allo scandalo della Banca Romana e alle torbide connivenze che ne emersero con affaristi di dubbio conio, politici corrotti e addirittura legami con la Casa reale. Nacque proprio da quello scandalo la radicale riforma delle banche di emissione e la nascita di un unico Istituto con poteri esclusivi sulla moneta e sul credito.
Ora almeno Antonio Fazio potrà dedicarsi alla difesa del suo operato senza coinvolgere l´Istituto che ha fino a questo momento guidato. Difendersi e chiarire è un suo diritto. Lasciare la carica di fronte ai fatti emersi con incalzante evidenza era un suo dovere cui ha adempiuto tardivamente dopo aver tentato di opporvisi con testarda e improvvida resistenza.
Il governo nel suo complesso ha dato per sei lunghi mesi uno spettacolo d´incapacità decisionale inquietante, diviso fino a pochi giorni fa tra nemici e amici del governatore, con un presidente del Consiglio sostanzialmente latitante e la Lega arroccata fino all´ultimo nella difesa acritica di Fazio.
Va detto con franchezza che la spallata d´una situazione ormai insostenibile è stata data da Giulio Tremonti che ha costretto Berlusconi ad uscire dalla nebulosa in cui si era chiuso e in cui probabilmente intendeva restare fino alle elezioni della prossima primavera.
Il ministro del Tesoro ha dovuto minacciare le sue dimissioni se il governo non l´avesse compattamente seguito revocando la fiducia al governatore e preparando nuove norme in proposito. Le avrebbe certamente date se il Consiglio dei ministri di oggi avesse ancora preso tempo o avesse scelto formule pasticciate e ulteriormente dilatorie.
La determinazione di Tremonti d´altra parte non sarebbe stata così ferma senza l´intervento della magistratura sulla scalata Antonveneta. Cominciò, ricordiamolo, con le intercettazioni telefoniche dell´estate scorsa, che pure avevano suscitato tante e spesso palesemente interessate polemiche. Poi è arrivato l´arresto di Fiorani, le sue dichiarazioni, la chiamata in correità del governatore e l´iscrizione di quest´ultimo nel registro degli indagati. Queste sono state le tappe di una vicenda tristissima dalla quale occorre oggi ricavare esperienza e insegnamento per il futuro.
Il primo insegnamento riguarda la struttura di governo della nostra Banca centrale, che va radicalmente modificata tenendo fermo il principio della sua assoluta indipendenza rispetto al potere politico, in conformità a quanto avviene per la Banca centrale europea.
L´indipendenza non va confusa con una autoreferenzialità che con la gestione di Fazio aveva di fatto messo la Banca d´Italia al di fuori del circuito istituzionale confinandola in un isolamento irresponsabile e insostenibile.
È vero che un caso del genere non era mai accaduto prima; i governatori che si sono succeduti dal 1946 in poi, pur ricoprendo un incarico senza termine, hanno costantemente colloquiato con il ministro del Tesoro, pronti a rimettere il loro incarico al solo sentore di non goder più la fiducia del governo. Così fu per Menichella, per Carli, per Baffi, per Ciampi: nessuno di loro ha mai pensato ad arroccarsi alle procedure formali di revoca e ciascuno di essi, quando dovette adottare decisioni che potevano essere sgradite al governo in carica, offrì contemporaneamente le proprie dimissioni se esse avessero incrinato il rapporto fiduciario che sta alla base del sistema.
Così è sempre stato in Italia e così è dovunque nelle democrazie occidentali: la Banca centrale è uno snodo autonomo della politica monetaria ma non deve diventare un centro di eversione istituzionale. In qualche modo questo equilibrio complesso tra autonomia e compatibilità di sistema ha la stessa natura che passa tra un ministro della Difesa e un Comandante militare sul campo.
Finora l´equilibrio tra le due autorità monetarie era implicito, ma l´"impazzimento" istituzionale di Fazio richiede una "governance" che lo renda esplicito.
Il mandato a termine di cinque anni diventa così il completamento necessario, insieme alla collegialità delle decisioni del Direttorio della Banca, fermo restando (almeno a mio avviso) che al governatore spetti la parola finale sulle decisioni. Un Direttorio che lo mettesse in minoranza creerebbe infatti una situazione impensabile all´interno di un Istituto che opera sui mercati internazionali e con i tempi rapidi che i mercati impongono.
C´è poi il problema dei poteri della Banca centrale. Quello della politica monetaria non è più di sua pertinenza da quando l´euro e la Banca centrale europea sono stati creati. Ma gliene restano altri della massima importanza.
Alcuni appropriati alla sua funzione, altri no.
Appropriato è certamente il potere di vigilanza sul sistema bancario. Personalmente credo che la Bce dovrebbe essere maggiormente presente di quanto finora non sia accaduto quando si tratti di operazioni transfrontaliere come per esempio le Opa e le fusioni tra istituti di diversa nazionalità.
Non appropriato è invece il potere di autorizzazione in capo alla Banca d´Italia per quanto riguarda la concorrenza tra le banche. Esse sono imprese come le altre e la tutela della concorrenza deve passare alla Autorità antitrust. Non c´è alcuna ragione che rimanga nelle mani della Banca centrale.
Quanto al principio della stabilità bancaria, invocato come massima preoccupazione della Banca centrale, è in buona parte un falso problema. Il mercato giudica. La Banca centrale deve controllare soprattutto l´adeguatezza dei mezzi propri degli istituti di credito rispetto agli impegni che assumono. Si tratta di un controllo necessario e inerente all´attività di vigilanza. Per il resto non esistono problemi di stabilità che non siano affidabili al mercato e agli organi di controllo interni delle singole aziende.
* * *
Le dimissioni di Fazio liberano il campo e consentono di procedere con speditezza sulla via della riforma. È evidente che la nomina del successore dovrà essere rapidissima ma non potrà esser fatta fino a quando la struttura di governo della Banca non sarà stata riformata.
Il Consiglio dei ministri di oggi serve a questo, poi la nuova normativa a cominciare dal mandato a termine del governatore dovrà essere sottoposta al Parlamento e ottenere, come è auspicabile, anche l´approvazione dell´opposizione nei modi che saranno opportunamente trovati per non confondere la concordia su un tema che richiede massima convergenza, con una fiducia al governo che non può certo esser chiesta all´opposizione parlamentare.
È fin troppo ovvio dire che per quanto riguarda il successore di Fazio, serve un nome che ridia la massima credibilità nazionale e internazionale all´Istituto che è stato improvvidamente trascinato in questa vicenda.
Ma l´insegnamento capitale che deriva dallo svolgimento dei fatti riguarda la distinzione di fondo tra la politica e gli affari. Su questo punto c´è ancora, mi pare, molta confusione.
I partiti possono ricevere con le modalità e la trasparenza richieste dalla legge che disciplina il loro finanziamento, aiuti e sostegno da soggetti privati, individui e imprese.
Non c´è scandalo per questo, purché avvengano alla luce del sole.
Il governo non deve mescolarsi alle iniziative delle singole imprese e alle loro operazioni sul mercato. Se lo fa e quando lo fa rompe una regola fondamentale della democrazia e di questo gli elettori debbono tener conto quando decidono il loro voto.
Il governo fa le regole. Le istituzioni vegliano sul loro rispetto. Quando la loro violazione configura un reato interviene la magistratura. Così funzionano i regimi democratici e così vogliamo sia per noi.


*****************************************************************


CORRIERE DELLA SERA
20 dicembre 2005
L'uscita di scena di un protezionista
CONSIDERAZIONI FINALI (E AMARE)
di DARIO DI VICO

Se nell'ultima settimana di luglio Antonio Fazio avesse compiuto il gesto di responsabilità che gli era stato suggerito e si fosse fatto tempestivamente da parte, avrebbe risparmiato a sé una lunga Via Crucis e alla Banca d'Italia un'umiliazione senza precedenti. Il contenuto delle telefonate intercorse con il banchiere Gianpiero Fiorani e i primi accertamenti della Consob sull'esistenza della rete dei «furbetti del quartierino» erano già ampiamente sufficienti per minare la credibilità del banchiere centrale di uno dei Paesi del G7 e giustificarne le dimissioni. Fazio non ha avuto la necessaria comprensione degli avvenimenti e ha pagato da allora un prezzo enorme.
Ma se da luglio a ieri non ha voluto separare il suo destino da quello dell'istituzione che dirigeva, forse il suo principale errore di questi anni, e non solo degli ultimi mesi, è stato di non aver coltivato un rapporto di consuetudine e di rispetto con il predecessore Carlo Azeglio Ciampi. E' sempre stata buona norma da parte dei governatori che si sono succeduti al comando di palazzo Koch tenere aperto il dialogo e il confronto con chi aveva occupato quella poltrona immediatamente prima di loro. E' stato così tra Donato Menichella e Luigi Einaudi, tra Guido Carli e lo stesso Menichella, tra Paolo Baffi e Carli e infine tra Ciampi e Baffi. Fazio, invece di accettare qualche buon consiglio dall'attuale presidente della Repubblica, ha fatto il contrario. Pressoché nello stesso modo il governatore si è comportato con altre personalità del mondo bancario che pure gli sarebbero potute essere di aiuto. Con molta ingenuità Fazio si è circondato di cattivi consiglieri (con l'eccezione, forse, di Angelo De Mattia) che non lo hanno aiutato a uscire dal suo isolamento, anzi vi hanno eretto attorno le mura di una prigione. Pensare che praticare la politica dello scambio con la Lega, strizzare l'occhio a una parte dei Ds, bere qualche bicchierino di sciacchetrà con Silvio Berlusconi, mettere su un piccolo gruppo parlamentare di fazisti duri e puri potesse essere una strategia vincente si è rivelato un errore imperdonabile, una sciagura.
La condotta scriteriata di questi mesi, l'aver proiettato un'immagine di sé come regista occulto di un gruppo di potere trasversale, compromette la valutazione complessiva dei suoi dodici anni di mandato. Eppure nella prima parte del governatorato, almeno fino al '97, aveva accumulato meriti. La sua interpretazione della politica monetaria aveva permesso di evitare la ripresa dell'inflazione e di arginare le pressioni del potere politico. Nella dozzina di Considerazioni Finali, curate fino all'ultima virgola, si possono leggere analisi brillanti degne di un economista di rango, e in fondo dobbiamo a lui il contributo più chiaro e tempestivo alla diagnosi del declino italiano. Quando però, una volta entrata l'Italia nell'euro, il governatore si è voluto ergere a deus ex machina delle trasformazioni del mercato è stato l'inizio della catastrofe. La parola concorrenza non è mai entrata nel suo dizionario e Fazio ha finito per imporre una sorta di «protettorato bancario». Ha pensato di poter congelare il sistema creditizio e rinviare sine die
l'apertura agli stranieri. Da keynesiano vecchio stampo che aveva frequentato il Mit degli anni '60, il governatore è stato il più pervicace degli interventisti. Ed è caduto perché alla fine ha creduto che si potesse fermare il vento della globalizzazione con le mani di Gianpiero Fiorani.


*****************************************************************


LA STAMPA
20 dicembre 2005
Subito il successore
di Giulio Anselmi

Fazio si è dimesso, poche ore prima di essere cacciato. La sua uscita di scena, resa obbligata dalla tardiva decisione del Consiglio superiore della Banca d’Italia di rinunciare a sostenere un Governatore impresentabile, è priva di ogni pur cupa grandezza: appare l’atto finale di una vicenda meschina, un ininterrotto scivolone nel corso del quale il partito trasversale che faceva da puntello in Parlamento, magari in cambio dei favori della banca di Fiorani, è stato scoperto e disperso, le alleanze finanziarie si sono squagliate, e perfino le benedizioni della Chiesa hanno preferito più presentabili destinazioni.

Come in ogni fine di regime, i crolli si accompagnano ai crolli: mentre a Milano proseguono gli interrogatori dell’amatissimo banchiere di Lodi, ben deciso a parlare pur di non fare la parte del capro espiatorio, a Roma divampa lo scandalo Confcommercio, che collega Billè a Ricucci. Sempre i soliti nomi, quelli dei protagonisti dei tre tentativi di scalata della scorsa estate, ad Antonveneta, Bnl, Rcs. Vicende nelle quali il ruolo di Fazio è ancora da chiarire: in relazione all’Opa su Antonveneta è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Milano per insider trading e da quella di Roma per abuso d’ufficio, mentre il gip Forleo lo descrive come un «complice» del sodalizio criminoso messo in piedi da Fiorani.

Toccherà ai giudici valutare se la difesa dell’italianità delle banche (motivazione con cui furono intralciate le mosse degli olandesi di Abn Amro per Antonveneta e degli spagnoli di Bbva per Bnl) avesse più o meno nobili motivazioni o se, viceversa, l’ostinazione nel disegno di favorire le mire espansionistiche della Lodi abbia indotto l’ex banchiere centrale a qualche compromesso con la tanto esibita etica della responsabilità: secondo gli studiosi della materia, data la discrezionalità che spetta a un Governatore, è molto difficile dimostrare l’abuso, mentre è noto che le condanne per insider non raggiungono le dita di una mano. Ma ciò non toglie che l’uomo definito «patella» dalla grande stampa internazionale per il suo attaccamento alla poltrona abbia screditato l’istituzione che doveva guidare, presumendo di incarnarla e facendola precipitare nel ridicolo grazie a comportamenti pomposi, ottusi e arroganti. Piuttosto è il caso di sottolineare che mentre maggioranza e opposizione si scannavano per opposti interessi, e, impantanati nelle sabbie mobili dei poteri e della durata in carica di Fazio, dimenticavano i risparmiatori la cui difesa era dimostrata come urgente dagli scandali Cirio e Parmalat, il ministro dell’Economia Tremonti (e, per la verità, anche Siniscalco nel corso del suo breve mandato) non ha mai perso di vista l’obiettivo di una legge sul risparmio: merito che va al di là dei pur evidenti conflitti personali tra l’uomo politico e il Governatore.

L’Italia, i suoi cittadini, i suoi imprenditori pagheranno il prezzo di queste opache vicende ancora per lungo tempo, ma sarebbe inutile ripetere le parole che abbiamo usato nei due anni di questa lenta agonia, domandando, ripetutamente, le dimissioni del principale responsabile. Occorre guardare avanti. L’esecutivo ha la strada spianata per fare ciò che il premier ha lungamente esitato a fare: ora deve muoversi con la massima trasparenza anche per evitare, da parte della Banca centrale europea, critiche e rilievi a proposito dell’indipendenza di via Nazionale. C’è innanzitutto un problema di regole: sul ruolo di Bankitalia, che sarebbe giusto perdesse le competenze sulla concorrenza bancaria a vantaggio dell’Antitrust; sul governo della banca, che dovrebbe abbandonare criteri monocratici per muoversi con decisione verso la collegialità; sulla durata del mandato, non più a vita ma a termine. Mettere mano a questi opportuni cambiamenti rischia però di scatenare un confronto paralizzante, magari intrecciando le innovazioni sulla Banca centrale alle tentazioni berlusconiane in materia di falso in bilancio o, peggio ancora, escludendo il presidente della Repubblica dalle procedure di nomina.

Data l’urgenza di trovare un successore a Fazio (e all’intero Direttorio screditato dalla acquiescenza ai diktat e agli errori del capo) è opportuno individuare, con la massima fretta, un successore che risulti accettabile al governo e all’opposizione: badando che sia competente in economia monetaria, che conosca i mercati finanziari, che non ignori i meccanismi della vigilanza bancaria e che goda di considerazione internazionale. Il ben noto provincialismo del banchiere di Alvito è stato una delle cause che ne hanno determinato l’inadeguatezza.

Finalmente Fazio è stato consegnato al passato. Ieri sera molti protagonisti della vita economica confessavano di aver tirato un sospiro di sollievo. E’ comprensibile: il bilancio dell’era che si chiude, al netto delle benemerenze acquisite in tempi ormai lontani a difesa della lira, termina con due risultati: 1) una credibilità internazionale gravemente compromessa; 2) una ridotta affidabilità delle banche, con la gente che guarda gli istituti di credito con crescente perplessità. Ma tutto ciò è potuto accadere perché buona parte del sistema di potere italiano è stato complice. La politica, sempre pronta a strumentalizzare ai suoi fini i segnali, magari impropri, del Gran Banchiere, cercando di interpretarne e canalizzarne le eventuali ambizioni. E il mondo bancario, fino all’altro ieri prono, preoccupato soltanto di interpretare l’aggrottar di ciglia del Governatore.
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 11:35.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com