L’unità d’Italia? L’avevano fatta i Longobardi

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vanni-merlin
00venerdì 28 settembre 2007 23:47
L’unità d’Italia? L’avevano fatta i Longobardi


Due secoli che potevano cambiare la storia



MAURIZIO ASSALTO

TORINO
Selvaggi invasori che fecero a pezzi quanto restava della civiltà classica in Italia, foetidissima gens, come li bolla nell'VIII secolo il Liber pontificalis, oppressori «cui fu prodezza il numero, / cui fu ragion l'offesa / e dritto il sangue, e gloria / il non aver pietà», come s'indignerà ancora 11 secoli dopo Manzoni nell'Adelchi, in chiave antiaustriaca? Oppure popolo di emigranti, che quando si mette in marcia verso la Penisola è già largamente romanizzato, e una volta stabilitosi intraprende un proficuo scambio con i gruppi locali, avviando la costruzione di una nuova nazione? Sulla realtà storica dei Longobardi il dibattito è aperto da oltre un millennio, fin dalla caduta del loro regno nel 774.

La mostra che si apre domani a Torino, Palazzo Bricherasio, con un'appendice all'abbazia di Novalesa («I Longobardi. Dalla caduta dell'impero all'alba dell'Italia», curatori Gian Pietro Brogiolo e Alexandra Chavarría Arnau) non prende partito tra le due opposte posizioni, affidando i saggi del catalogo Silvana a studiosi di differente orientamento. Lo scopo è piuttosto quello di ricostruire un quadro di più lungo periodo, che metta in evidenza le trasformazioni culturali, politiche, economiche e materiali sperimentate dall'Italia nel passaggio tra l'Impero romano, la dominazione dei Goti, quella dei Bizantini e infine i Longobardi. Quando questi arrivano, nel 568, al seguito di Alboino - approfittando della stanchezza di Costantinopoli, messa a dura prova dalla lunga guerra greco-gotica e già pressata da nuovi pericoli - nella Penisola l'Impero di fatto si è già dissolto da un paio di secoli: e la situazione che si trovano di fronte è quella di un generale impoverimento, un orizzonte manzoniano di «atrii muscosi e Fori cadenti» che non può essere a loro addebitato.

Certo non sono dei raffinati. Di lontanissima origine scandinava, abituati da secoli a una vita di spostamenti - che li aveva portati a risalire il corso dell'Elba fino a raggiungere il Norico (l'attuale bassa Austria) e la Pannonia (Ungheria) - hanno lasciato poche tracce nel campo edilizio e scultoreo (colpisce, in mostra, la scarsità di reperti di questo tipo, a fronte dell'abbondanza di materiali tardo-antichi e anche gotici). I nobili occupavano le antiche domus e i palazzi romani rimasti in piedi, tutti gli altri vivevano in capanne di legno seminterrate, erette sui resti di fori e anfiteatri. In compenso le loro tombe abbondano di armi (assenti invece nelle sepolture dei Goti) e di piccoli oggetti facilmente trasportabili, soprattutto gioielli e accessori in lamina d'oro, non privi di una loro barbarica suggestione: nel corso del tempo, peraltro, le raffigurazioni zoomorfe di carattere mostruoso, che testimoniano di una natura percepita come ostile e minacciosa, poco alla volta cedono il passo a motivi più eleganti di influenza mediterranea.

Come erano, o almeno come si rappresentavano i Longobardi, lo possiamo ricavare dai ritratti riprodotti sugli anelli-sigilli, per esempio quello della tomba 2 di Trezzo, o in alcuni bassorilievi, come quello, eccezionale, su un frammento di ambone ritrovato a Novara: torso nudo, una cintura multipla sui fianchi, folta capigliatura (a cui questi combattenti dovevano tenere parecchio: in diversi reperti sono raffigurati nell'atto di pettinarsi), lunga barba. E proprio da questo attributo, secondo il più alto esponente della loro cultura, lo storico Paolo Diacono autore alla fine dell'VIII secolo della fondamentale Historia Langobardorum, deriverebbe il loro nome: dapprima noti come Winnili, furono ribattezzati dal dio supremo Odino, colpito dalla loro lunga (lang) barba (bärte). Gli altri attributi, che ne caratterizzano la figura e ne segnano il rango militare-sociale, sono il cavallo (a volte sepolto con il guerriero, ma pure rappresentato lanciato al galoppo, con il cavaliere in sella, come nel frammento di decorazione in lamina di bronzo dorato dello scudo di Stabio) e ovviamente le armi con cui impongono il loro predominio sulle popolazioni soggette.

Col passare del tempo, però, si determinano alcuni importanti cambiamenti. A partire dalla lingua, che dopo pochi decenni dall'insediamento non è più quella germanica ma quella latina, in un originale impasto che porterà all'evoluzione delle diverse varianti volgari. Ma anche nell’assetto politico-statale, con i duces, comandanti o «duchi» - spesso in conflitto col potere centrale - che dall’originario ruolo essenzialmente militare estendono via via le loro competenze all’ambito civile. E nella struttura economico-sociale, con l'emergere di una stratificazione in cui al Longobardo libero e guerriero si affianca una molteplicità di figure meno guerriere e meno libere, sempre più legate al lavoro nei campi, all'artigianato e al commercio. È la storia raccontata in mostra dagli straordinari ritrovamenti negli scavi di Collegno, iniziati nel 2002, con una prima fase (570-650) caratterizzata da sepolture ricche di armi e scheletri che rivelano l'attività bellica, spesso la morte in battaglia, e una seconda fase (650-fine VII secolo) in cui la panoplia si impoverisce, gli scheletri rivelano ancora attività fisica ma prevalentemente di tipo agricolo. Ulteriore, illuminante dettaglio, la statura diminuisce: indizio del fatto che i matrimoni misti si stanno diffondendo, la separatezza longobarda è ormai caduta, favorita anche dalla sempre più convinta adesione al cattolicesimo, prima contrastato dalla forte tendenza ariana nonché dalle persistenze pagane.

Gli occupanti cercano il dialogo con i vescovi, nuovi leader (non solo spirituali) della comunità, forti dell'investitura popolare, delle relazioni sociali e del possesso di portentose reliquie. Costruiscono chiese e monasteri, adattando il linguaggio figurativo romano. A ogni livello. Come nella celebre lamina dorata di Agilulfo, il pezzo più importante della mostra: un frontale di elmo che riproduce, innovandolo, il medesimo schema figurativo del missorium argenteo di Teodosio (388 d.C., di cui è esposta una preziosa copia), con il sovrano seduto al centro della scena, ai lati due militari con la lance, affiancati da due Vittorie alate; intorno alla testa del re, sulla falsariga di ciò che si vede nel dittico eburneo del console Probo (406), la scritta «D.(omino) N.(ostro) AGILU(lfo)». Da notare che questo grande sovrano, già duca di Torino scelto nel 590 come sposo dalla vedova di Autari, la fervente cattolica Teodolinda, approdato nella capitale Pavia ampliò il suo titolo dal tradizionale rex Langobardorum al più ecumenico gratia Dei rex totius Italiae.

Tutto sembra indicare che, dopo la fase dell’occupazione violenta e degli steccati, i Longobardi fossero avviati alla piena integrazione nel melting pot di una nuova realtà nazionale che andava tumultuosamente prendendo forma, in parallelo con quanto accadeva nei regni romano-barbarici di Francia e Spagna. «Di già non ritenevano di forestieri altro che il nome», scriveva Machiavelli all’inizio del ‘500, indicando la radice dei mali da cui era afflitta l’Italia nella discesa dei Franchi di Carlo Magno, sollecitata dal papa Adriano I, che portò alla caduta dell’ultimo re longobardo Desiderio. I successori di Alboino avevano unificato gran parte della Penisola, dando vita a un popolo unico e coeso. Un’idea possibile di Italia, oltre un millennio prima dell’unità. Ed è singolare che a concepirla siano stati proprio gli antenati di coloro che, appena qualche anno fa, l’Italia avrebbero voluto disfarla.



da: www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/arte/grubrica.asp?ID_blog=62&ID_articolo=626&ID_sezione=117&sezi...

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